Alcuni buoni motivi per amare Robert Wyatt

di Alberto Piccinini

Robert Wyatt ha compiuto settant’anni a gennaio duemilaquindici. Il mese scorso ha annunciato in un’intervista di avere smesso con la musica. “Ho pensato che i macchinisti di treno vanno in pensione a 65 anni. Lo farò anch’io. Cinquant’anni passati al posto di guida non sono una cosa da poco e in questo momento a essere onesto sono più interessato alla politica che alla musica”. Lo ha detto con la consueta ironia, macchinista della sedia a rotelle dove sta seduto da quando aveva 28 anni. “Se Dio avesse creato le sedie a rotelle”, recita un’altra sua battuta “le avrebbe presentate come una naturale alternativa alle gambe, nel caso qualcuno avesse voluto scegliere”.

A 28 anni Wyatt cadde completamente ubriaco dalla finestra di un primo piano, durante un party londinese (“ho rovinato la festa a tutti”). L’incidente passò agli atti della storia minore del rock. Nella storia maggiore si moriva e ciao, come Jimi Hendrix.

Si sorvola spesso sulle circostanze: depresso, semialcolizzato, aveva perso il posto di batterista dei Soft Machine e sciolto in fretta il suo nuovo gruppo Matching Mole. Con una moglie e due figli piccoli avuti da un matrimonio finito in pochi mesi, una storia d’amore con l’artista Caroline Coon interrotta da un tentativo di suicidio e un’altra cominciata con l’illustratrice Alfreda Benge. Alfie sarebbe stata la prima a raccoglierlo paralizzato ma vivo. Gli resterà vicina per tutta la sua vita nuova.
“La gente pensa sempre che io abbia problemi a parlare dell’incidente. Non ne ho. Ho problemi invece a parlare di com’ero prima”, ha detto Wyatt al suo biografo Marcus O’Dair. Different every time – la biografia “autorizzata”, appena uscita nel Regno Unito – fa parlare la sua voce, quella di sua moglie, di decine di amici e colleghi. Ci informa che Alfie e Robert vivono nella stessa casa da quasi 25 anni, a Louth nel Lincolnshire (“un paesino da trenino per bambini”); che Robert è diventato il “riluttante possessore di un telefono portatile”. Che, grazie a suo figlio Sam, ha scoperto l’esistenza di una trafficata pagina Facebook a lui intitolata. L’università del Kent gli ha assegnato una laurea honoris causa in musica . Adesso l’espressione “scuola di Canterbury” – Arcadia di tutti i liceali snob anni settanta – ha finalmente un senso compiuto.

Robert Wyatt è figlio di una famiglia della sinistra intellettuale inglese. Padre psicologo, madre giornalista della Bbc, entrambi buoni amici del poeta Robert Graves. Molti dischi e libri in casa. Lasciata per scarso rendimento la prestigiosa grammar school alla quale l’avevano iscritto, ha frequentato una scuola d’arte (dal classico all’artistico diciamo così), senza aver mai imparato a leggere la musica: “Così nessuno ha mai potuto dirmi cosa dovevo suonare”. Ma è solo una battuta a fior di denti. Quel primo fallimento dovette costargli molto in termini di sicurezza e stabilità personale. Suo padre, malato di sclerosi multipla, morì di lì a poco, durante un viaggio nel sud dell’Italia. Ci aveva passato gli anni della guerra, avrebbe voluto tornarci a morire. La grande casa di Dulwich, culla delle prime passioni musicali e intellettuali di Robert (il jazz, la poesia beat), crocevia delle sue amicizie, si chiuse per sempre.

Negli anni, con un misto di dolore nascosto e pubblico humor, senso dell’inadeguatezza, malinconia, amore per il nonsense e le canzonette pop, dignità e dolcezza, Robert Wyatt ha imparato ad abitare altri fallimenti, cause perse, sogni infranti (stavo per dire ci ha insegnato. Ma la retorica dell’esempio non si addice al personaggio che conserva tra i suoi cimeli un diploma del collegio di Patafisica per aver accompagnato con i Soft Machine una messinscena dell’Ubu Incatenato a Edimburgo). Cresciuto negli anni sessanta quando tutto sembrava possibile (e invece non lo fu), si è trovato a sostenere i minatori al tempo della Thatcher e a maledire Blair al tempo del New Labour. Pacifista internazionalista durante le guerre del Golfo, iscritto al Partito comunista inglese tendenza trinariciuta. Neppure trotzkista, perché sarebbe stato troppo facile. Per niente attratto, in ogni caso, dalla deriva della sinistra intellettuale di trasformare il conflitto sociale in cultural studies, citazioni di Gramsci e rock’n’roll.

“Dicono che la classe operaia è morta, che adesso siamo tutti consumatori”, così cantava in The age of self. “Dicono che siamo andati avanti, che adesso siamo tutti gente. Dicono che abbiamo bisogno di immagini nuove per far crescere il movimento (…) E mentre Martin J. e Robert M. giocano con l’inchiostro della stampante/nel mondo i lavoratori muoiono ancora per lo zinco della Rio Tinto”. The age of self uscì nel 1985 nell’album Old rottenhat. Non si può dire che sia una canzone attuale, questo no. Il testo è puro funzionalismo poetico, dalle parti di Balestrini/Fortini per noi: c’è la risposta a un articolo dello storico Eric Hobsbawm sulla fine della classe operaia inglese, la citazione dalla multinazionale Rio Tinto complice dell’apartheid sudafricano, riferimenti alla scissione in corso del già minuscolo Partito comunista inglese.

Certamente The age of self è una delle canzoni politiche più belle di quegli anni difficili (e questa speciale classifica comprende anche Shipbuilding, sui lavoratori dei cantieri navali ai tempi delle Falkland, scritta da Elvis Costello e cantata dallo stesso Wyatt). Esce negli anni ottanta quando una nuova generazione di musicisti trova in Robert Wyatt il punto di riferimento più alto possibile dal punto di vista estetico e politico. Wyatt, intanto, comincia a porsi il problema di scrivere canzoni che non possano essere “usate” contro le sue intenzioni, e già questo è un tema estetico più interessante della canzone politica in sé e per sé. Scrive quindi canzoni che non sono generalizzabili, come la sua voce. Canzoni che non hanno effetto. “Sono abituato a domande come: ‘Pensi che l’arte politica abbia qualche effetto?’”, spiegherà. “La mia risposta è: se Stevie Wonder o chi per lui canta una canzone d’amore non la giudicherai mica dall’effetto, se insomma Stevie ce l’ha fatta o no a conquistare quella ragazza”.

Fino a tutti gli anni ottanta Alfie e Wyatt abitano a Twickenham, un sobborgo a sudovest di Londra. La casa è un regalo dell’amica attrice Julie Christie e fa parte della catena di solidarietà che si è messa in moto negli anni subito dopo l’incidente. “Stavamo in una parte molto carina del quartiere”, ricorda oggi Alfie. “Non era certo una via elegante, c’erano soltanto case molto spaziose. Ma negli anni ottanta il quartiere fu preso d’assalto dagli yuppie. Una casa intera per famiglia, due macchine parcheggiate fuori. I vicini presero a lamentarsi dei nostri manifesti contro l’apartheid sudafricano: non abbiamo pagato un sacco di soldi per venire a vivere qui e vedere questa roba”.

Non so perché, ma mi viene in mente adesso questa nuova e curiosa fissazione del renzismo per il New Labour di Blair. Perfino il fantasma della Thatcher è apparso nel recente scontro tra Renzi e la Cgil di Camusso-Landini. Le canzoni di Wyatt, insomma, potrebbero tornare buone. Come uno strano viatico per attraversare questi tempi confusi. Eppure chi è cresciuto con il rock inglese degli anni ottanta coi suoi slanci per il Sudafrica e i minatori, chi ha conosciuto l’estetica farlocca della Cool Britannia anni novanta, troverà in tutta questa roba un malinconico déjà vu piuttosto che qualche tipo di flagranza. Problemi nostri, mica di Wyatt: “Sono stato sempre più interessato nel fare un funerale decente alla gente bella e alle belle idee piuttosto che fare da bambinaia all’ultima idea nuova”, ha detto una volta insegnandoci (stavolta sì) la dolcezza dell’abitare i fallimenti. I suoi e i nostri.

“La musica, ha spiegato ancora “è sempre una conseguenza della politica, mai una sua causa”.

Una delle canzoni-manifesto di Wyatt si chiama Signed curtain. È stata composta per i Matching Mole, prima dell’incidente. Comincia così: “Questo è il primo verso/ questo è il primo verso/ questo è il primo verso// E questo è il ritornello/ o forse il bridge/ o forse un’altra parte della canzone che sto cantando”. Sopra un accompagnamento di pianoforte da cantautore dilettante, usa come sempre il falsetto. La sua “voce d’angelo”, però, è più arrochita del solito, al limite della stonatura. Signed curtain non è solo una meta-canzone. Si direbbe piuttosto che mima la sua composizione nel momento preciso in cui viene cantata.

Seconda strofa: “Questo è il secondo verso (…) potrebbe essere l’ultimo. Forse è il ritornello, o forse il bridge. O forse un altro cambio di tonalità”. E qui la tonalità cambia davvero perché la costruzione armonica è dilettantesca ma solo per gioco. I cromatismi che mimano l’incertezza della strada da prendere vengono dall’ascolto attento del jazz e dallo stile di Richard Wright dei Pink Floyd (Wyatt e i Soft Machine dividevano con loro il palco all’Ufo club di Londra nel 1968). “Volevo scrivere la canzone pop definitiva, ridotta ai minimi termini”, ricorda ora Wyatt nella biografia. “Cercare una specie di autenticità, provare a dire soltanto qualcosa che è vero”. Una specie di. Ci sta dicendo che non coglieremo mai l’autenticità di una canzone pop (neppure di una canzone politica) quando il sipario è aperto, e la macchina retorica e teatrale di strofa-ritornello si dispiega in tutta la sua potenza. Lui che neppure tanto per caso ha vissuto nella sua carriera il terrore di salire su un palcoscenico.

Nell’enigmatico titolo, aggiunto all’ultimo momento a un pezzo che gli girava nella testa da qualche tempo, c’è un sipario (curtain). È chiuso o si sta chiudendo, spiegherà in seguito Wyatt. È firmato (signed), come un quadro. Dov’è la via d’uscita dalla Rappresentazione, allora? Lo dicono gli ultimi due versi, dopo che il cambio di tonalità ci ha portato già dentro un’altra canzone: “Non è grave, non importa. Tanto ho perso fiducia in questa canzone/ perché non mi aiuterà a raggiungerti”. La cosa più vera di tutte, assieme a questa dichiarazione di impotenza retorica, è che Signed curtain finisce lì. Il finale, nella retorica canora sarebbe il momento di massima soddisfazione dell’ascoltatore. Ma niente: la voce tace, il pianoforte si ferma e stop.

Signed curtain sta sul lato b del primo 45 giri dei Matching Mole. Sul lato a c’è O Caroline, un’altra dolorosa metacanzone su un amore finito: “David è al piano e io devo suonare la batteria. Proviamo a suonare bene (…) ma non posso fare a meno di pensare che se tu fossi qui con me sarei più concentrato sui miei pensieri e suonerei ancora meglio. Ti amo ancora, Caroline”. È dedicata a Caroline Coon. A lei, e a nessun’altra. Nella seconda strofa compare un altro verso-manifesto: “Se questa me la chiami robaccia sentimentale, mi fai diventare pazzo. Lo sai che io non canto mai le mode passeggere”.

Può darsi che Caroline sia ugualmente la destinataria di Signed curtain. Ma Wyatt suggeriva che la canzone potrebbe alludere per metafora all’interruzione del suo rapporto coi Soft Machine. Noi potremmo dire invece che il “tu” si rivolge al pubblico immaginario che ascolta la canzone, cioè noi, di fronte a un sipario chiuso. Altra cosa vera di Signed curtain: è “una robaccia sentimentale” che “non funziona”. Per tre scarsi minuti abbiamo abitato un luogo impastato di rimpianto, nostalgia, umanissima disperazione: per un amore, un’amicizia, per un’idea che non ha avuto l’effetto sperato. Ne abbiamo esplorato i confini, misurato la distanza dal mondo reale come dall’oblò di un’astronave. Se le canzoni non servono a niente (forse soltanto in Adorno si trovano pagine così feroci contro le canzoni che pure amiamo, cantiamo, ricordiamo), allora perché continuiamo a cantarle?
Essere buttato fuori dai Soft Machine è stato più traumatico che rompersi la schiena due anni dopo, ed è la band piuttosto che le sue gambe a causargli la sindrome dell’arto fantasma
Il primo pezzo di Robert Wyatt che ricordo di aver sentito a 14 anni si chiamava Little Red Riding Hood hit the road. L’avevo registrato dalla radio su un registratore a cassetta, molto probabilmente coi rumori di fuori che entravano nel microfono. Funziona come una specie di vortice acquatico. Tu stai dentro un accordo di la maggiore per un minuto, con la sospensione di un raga indiano. Non lo capisci subito. E un po’ come Wile Coyote quando gli casca lo spuntone di roccia sotto i piedi. Cadi e le grida della tromba di Mongezi Feza non ti danno il tempo di guardarti attorno, di cercare un appiglio per fermarti. Cadi, e quando la voce di Wyatt entra con un acrobatico salto di ottava (“Or-lan-don’t tell me oh no”) cadi ancora. E ogni volta che la canzone sembra trovare un filo, il la maggiore precipita in minore, e dal minore ritorna in maggiore. Dal quarto minuto in avanti voce e strumenti si raddoppiano, ma coi nastri girati al contrario. E non c’è scampo. Ora me la spiego così, ma un po’ ancora mi tremano le gambe quando la ascolto. Non avevo mai sentito nulla del genere prima.

Cappuccetto Rosso riprende la strada venne scritta probabilmente a Venezia, in una casa alla Giudecca poco prima dell’incidente. Wyatt aveva accompagnato Alfie sul set del film A Venezia un dicembre rosso shocking, uno psicothriller di coppia interpretato dalla comune amica Julie Christie e diretto da Nicholas Roeg (musiche di Pino Donaggio, tema cantato da Iva Zanicchi). Alfie era assistente al montaggio. Intrappolato a Venezia e incapace come tutti i depressi iperattivi di prendersi una vacanza con la sua fidanzata, Wyatt compra una piccola pianola giocattolo marca Riviera, e di fronte all’acqua della Laguna compone le nuove canzoni di Rock bottom. Le finirà sul pianoforte dell’ospedale dove resterà ricoverato per parecchi mesi. E dovrà impararsele bene a memoria per mancanza di qualsiasi registratore, neppure portatile.

Non è l’unica volta che l’Italia fa capolino nella biografia di Wyatt. Nel 1981 il programma Un certo discorso su Radio3 lo chiamò per una settimana intera di “prove aperte” nella mitica sala M all’ultimo piano di via Asiago 10 (che è ancora in funzione, e fa un po’ di malinconia, grande, vuota e coperta di tende scure com’è). Negli anni ottanta per Wyatt ci saranno diversi inviti nelle feste dell’Unità emiliane. Per un musicista di sinistra inglese, in quel periodo il nostro paese è una specie di eldorado messicano, con le piazze piene, le scuole occupate, la rivoluzione a un passo.

Nel 1974 Wyatt è a Roma, già in sedia a rotelle. Tiene uno dei rari concerti della sua carriera a piazza Navona per Stampa Alternativa, in nome della liberalizzazione delle droghe leggere. Sul palco ci sono anche i Gong e gli Henry Cow. Organizzazione autogestita, autofinanziamento a birra e panini. Cinquantamila persone e tre milioni di debiti, accuse feroci di Stampa Alternativa al partito radicale e ai “padroni della musica” per aver boicottato il tentativo di costruire uno “spazio liberato di musica e politica” nel centro della città. Wyatt, questo ricorda oggi Alfie, soffrì parecchio nell’accorgersi che nessun bar e nessun hotel è attrezzato per rendergli facile la nuova vita in carrozzella.

Di cosa parla Cappuccetto Rosso riprende la strada? Nella prima strofa Wyatt – o il protagonista della canzone – infila una sequenza di invocazioni disperate (“Non ce la faccio… abbi pietà… Accidenti, povero me…”). Nella seconda strofa sembra chiedere scusa a qualcuno: “Perché ti ho fatto del male? Non volevo farti del male”. E molta della critica in quegli anni vedeva qui un riferimento nemmeno troppo metaforico alla caduta, all’incidente, una specie di biografica autocommiserazione insomma. Ipotesi suggestiva e sempre possibile, se non sapessimo che i testi sono scritti prima dell’incidente e riguarderebbero semmai l’impasto di amore, Venezia, marxismo che occupa i pensieri dell’autore nei giorni passati alla Giudecca davanti alla Laguna.

“Non ricordo che la canzone avesse niente a che fare con l’incidente”, ripete oggi Wyatt. “Difatti trovo la tradizione dei cantautori che rovesciano le loro nevrosi in pubblico un tantino limitata”. Tocca infine al poeta Ivor Cutler, scrittore di limerick e storie per bambini, talismano della controcultura londinese di quegli anni, introdurre nell’ultima parte della canzone altri due protagonisti: una talpa e un porcospino. Passano la giornata sull’autostrada a cercare di bucare le gomme delle macchine che passano. In realtà, che assieme al porcospino ci sia una talpa lo si ricava dalla canzone finale dell’album Il piccolo Robin Hood rosso ritrova la strada (ma in inglese il titolo suona molto simile all’altro). Comincia così: “Nel giardino di Inghiterra talpe morte giacciono nelle loro tane”. Ivor Cutler recita ancora il finale: “Buttato per la strada cerco di farmi prendere dalle macchine che passano/ (…) Passiamo il giorno a bucare copertoni mentre andiamo lungo l’autostrada verso il giorno che tramonta”.

Inutile aggiungere che il sabotaggio dell’autostrada da parte di una talpa e di un porcospino è un’impresa suicida, e quanto meno perdente dal punto di vista strettamente politico. Ed è un tentativo piuttosto comico di rendere omaggio al fascino degli highwayman, i briganti di strada citati nel testo, nel quale si descrive pure la simbolica distruzione di un televisore a colpi di cornetta del telefono. Per una marxista laico e patafisico come Wyatt può ricordare il “ben scavato vecchia talpa” di Marx che cita Shakespeare nel 18 brumaio. E Rock bottom, se questo ha un senso, esce il 21 giugno 1974, primo giorno d’estate e 21° anniversario della rivoluzione cubana. Ma la talpa (mole), nel bestiario di Wyatt di quegli anni, richiama i Matching Mole e (cioè i Machine Molle, Soft Machine in francese), e l’altro doloroso fallimento della sua vita.

“Robert”, scrive il suo biografo Marcus O’Dair “insiste che essere buttato fuori dai Soft Machine è stato più traumatico che rompersi la schiena due anni dopo, ed è la band piuttosto che le sue gambe a causargli la sindrome dell’arto fantasma”.

La biografia Different every time (come il primo verso di Sea song) è aperta da una breve e affettuosa presentazione di Jonathan Coe. Lo scrittore ricorda di aver trovato grazie all’ascolto dei dischi di Wyatt il tono che cercava per i suoi romanzi. Politica, rabbia, calore, umanità.

C’è una piccola scena della Banda dei brocchi che racconta meglio di tante altre parole la malinconia che avvolge tanta musica degli anni settanta. È quando Benjamin, il quindicenne protagonista aspirante scrittore e musicista, va a casa dei nonni – dove c’è un pianoforte – a registrare “una serie di brani di musica da camera per pianoforte e chitarra che si intitolavano semplicemente Marina 1-7”. La faccenda è molto prosaica, per via dei rumori della casa, della strada, dei nonni e del gatto. Chi abbia maneggiato un qualche vecchio registratore a cassette per catturare le sue canzoni, o quelle che venivano dalla radio, capirà la situazione. Oltrettutto lo scopo dell’opera (“grandiosa”) è molto differito nel tempo: “Un contenitore che avrebbe custodito i suoi sentimenti per Cicely, e che lei avrebbe ascoltato, o letto, o visto tra dieci o vent’anni e improvvisamente avrebbe capito col batticuore che era stato creato per lei (…) Quel giorno la consapevolezza di tutto quello che aveva perduto, tutto quello che aveva mancato, si sarebbe abbattuta su di lei (…) e lei avrebbe pianto, pianto per la propria stupidità e l’amore che avrebbe potuto nascere tra loro”.

“Naturalmente”, conclude Coe “Benjamin poteva pur sempre accontentarsi di rivolgerle la parola, avvicinarla mentre era in fila per l’autobus e chiederle di uscire insieme. Ma quell’altro gli sembrava, tutto sommato, l’approccio più soddisfacente”. Ecco perché.
Il fenomeno dell’arto fantasma si ricongiunge a quello della rimozione. Infatti la rimozione di cui parla la psicoanalisi consiste in questo, che il soggetto imbocca una certa strada – iniziativa amorosa, carriera, lavoro – che incontra una barriera e che, non avendo la forza di superare l’ostacolo né quella di rinunciare all’impresa, egli rimane bloccato in questo tentativo e impiega indefinitamente le sue forze a rinnovarlo nello spirito. (…) Fra tutti i presenti, un presente assume un valore di eccezione: sposta gli altri e li destituisce del loro valore di presenti autentici. Io continuo a essere colui che un giorno si è impegnato in questo amore da adolescente, o colui che un giorno ha vissuto in questo universo familiare.–Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione.

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