The Thermals - We Disappear (2016)

di Gadis Argaw

«We were here/We disappear», recitano Hutch Harris, Kathy Foster e Westin Glass, aka The Thermals, in The Great Dying, fulcro del loro settimo album in studio intitolato appunto We Disappear. Che sia davvero l’ultimo atto per il trio di Portland, tornato a tre anni da Desperate Ground? La conferma l’avremo più avanti, ma quel che è certo è che i tre, ripigliatisi dall’esperienza indie, hanno deciso di dedicarsi nuovamente al caro vecchio punk-rock declinandolo a tratti in chiave power (J Mascis e Dinosaur Jr. ringraziano), al fianco del fidato produttore Chris Walla, ex Death Cab For Cutie.
Il tema attorno a cui ruotano le dieci tracce contenute nel disco è il rapporto tra la morte e l’essere umano, quest’ultimo sempre più ossessionato dall’idea di raggiungere l’immortalità con qualunque mezzo – Hutch stesso porta l’esempio dell’aggiornamento post-mortem di alcuni social network – in modo che il ricordo di sé sopravviva a lungo negli altri, specialmente se posteri. Si aggiunge poi il problema di cosa sia privato e di cosa non lo sia all’interno di un contesto digitale dove ormai numeri e lettere scorrono a fiumi e la maggioranza delle persone non si pone domande sulla tutela delle proprie informazioni riservate: «Into the code we stay alive/We live in hope we will survive». Il terzetto canta e suona tutto ciò in una mezz’oretta nel suo stile acidulo e grezzo, qui spesso anthemico (Into the Code, In Every Way), corroborandolo con esperienze reali da storyteller travestiti da punk-rocker (i Green Day lo sanno bene). Insomma, pare che la formula «bubblegum per folkster scaraventati nell’orgia garage. Due accordi per una storia di provincia, altri due per un’impressione fugace sul mondo» di cui avevamo scritto sulle nostre pagine dieci anni fa, attragga ancora i Thermals.
We Disappear, tuttavia, è la dimostrazione che affezionarsi a un modus operandi – stabile da tempo – per aumentare e massimizzare la comunicatività del proprio messaggio non sempre funziona, specialmente quando si pecca di superficialità sia sul fronte dei testi che su quello delle melodie. Questo non toglie che spicchino brani orecchiabili quali My Heart Went Cold e il quasi power-pop di The Walls, o l’intensa carica di pathos che esplode a forza di colpi sordi di batteria e basso gorgogliante in The Great Dying. Se i Thermals si sono contraddistinti dagli esordi per la sapienza nell’inculcare riff e ritornelli nella mente dell’uditorio e nel farlo meditare sugli argomenti proposti dai testi, la sensazione attuale è che la loro minestra sia stata riscaldata troppe volte, finendo per tediare anziché invogliare all’ascolto.
L’intenzione ammirevole di fornire all’audience un manuale organico per esorcizzare e affrontare la morte in ogni sua forma, e il vuoto che essa porta con sé, purtroppo si arena in un vano tentativo di riscatto che porta Harris, Foster e Glass a sfornare un album pieno di canzoni che sembrano appartenute a dischi precedenti. (Mia valutazione: Buono)

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