The Burning Hell - Public Library (2016)

di Stefano Ferreri

Rieccola la gente, immortalata con sublime senso dell'umorismo e una lucidità degna di un entomologo in quel gioiello di un paio di anni fa, intitolato "People" non a caso. La messa a fuoco del formidabile apparecchio fotografico che è lo storytelling di Mathias Kom oggi sceglie tuttavia di relegarla sullo sfondo, opaca e indistinta, per riprendere a concentrare in via esclusiva il proprio sguardo pungente sull'io e sul noi - intercambiabili a piacimento - di una rock band che da sempre collima fino in fondo con il suo vulcanico deus ex machina. Il folk-cabaret dei Burning Hell ritorna quindi con buona puntualità dopo la parentesi autocelebrativa dello scorso anno, "Live Animals", per quanto nell'accezione più autobiografica e incline al vivace bozzettismo che del collettivo canadese è un po' il marchio di fabbrica. Se le riflessioni restano impregnate di amarezza, l'intonazione nostalgica non ha mai modo di affossarne la prospettiva caustica e il taglio ironico si conferma in "Public Library", settimo Lp a referto, la miglior benedizione di cui questa band sia capace.

Proseguono così le sue narrazioni nel segno di un eccentrico e verboso folk bandistico che non disdegna occasionali screziature tra blues e jazz, visto che ogni forma di contaminazione nel carniere di Kom è come sempre benvenuta. I testi sono i consueti, torrenziali, flussi di coscienza del musicista di Peterborough, più guizzante che mai nell'opener in contrasto agli ordinati contrappunti della parte strumentale. Perdersi nelle sue proverbiali sbrodolate resta un piacere, anche quando le canzoni non raggiungano l'epocale incanto dei suoi migliori lavori di ieri. La bulimia classificatoria dell'autore si limita in questo caso a un sottotitolo categorizzante a seconda del genere letterario imitato di volta in volta.

Ecco quindi la "commedia romantica" di "Fuck The Government, I Love You", ballata tristanzuola ma tenerissima e sorta di romanzatura del primo incontro tra Ariel e Mathias durante un veglione di Capodanno, già apparsa sulla deliziosa raccolta di duetti che i due hanno pubblicato appena qualche mese fa, "Don't Believe The Hyperreal": è a mani basse il titolo migliore del lotto e ha dentro tutta la marginale poesia di cui Kom è capace, la sua schiettezza, l'arguzia sottilissima.
Nella "critica letteraria" di "Give Up" viene invece accomodato un mantra che disegna la gioiosa resa al disincanto del cantastorie, toccato dalla fine miserabile e priva di risposte del mito personale Herman Melville. La compagine dell'isola di Terranova insiste serafica con la propria colorata sarabanda, un commento sonoro che rinuncia però quasi del tutto alle asprezze e predilige un tono festoso, trionfante, che sa di beffarda contromossa per non abdicare al fatalismo nudo e crudo.

Non può mancare poi il "romanzo di formazione", uno sbarazzino viaggio a ritroso nella ventennale liaison tra il frontman e la musica pop, sentimentale nel rievocare trascorsi che potrebbero essere tranquillamente i nostri e, nel contempo, refrattario al sentimentalismo di facciata. Ma "Men Without Hats" vale anche come inno al potere liberatorio del rock'n'roll, rifugio e fonte di ispirazione senza eguali, qui intonato alla maniera degli amici Herman Düne. E, ancora, la pagina di "cronaca criminale" di "Good Times", il ribellismo giovanile raccontato con lo stesso candore dei primissimi Belle & Sebastian, quelli innamorati di tutto e ancora non inquinati dalla maniera. È da certi dettagli stilistici e umorali che traspare come "Public Library" aspiri a presentarsi più che mai come uno svagato e leggerissimo invito al carpe diem, e insieme l'affettuosa celebrazione di un passato idealizzato anche nelle sue note meno liete.

Con "The Road" si piega verso un rock marezzato e nervoso che non rinuncia tuttavia a riservarci i suoi bonari sorrisi. Il tutto mentre viene elencata una serie di disavventure da un recente tour britannico del gruppo, emblemi della vita raminga degli artisti, che sarà anche avara di fortune ma non certo di umanità o aneddoti gustosi. Anche quando le cose non girano proprio a meraviglia, il tesoretto dei Burning Hell sta tutto in quell'inesauribile calderone di riferimenti buffi e illuminanti, in quella magica arte affabulatoria che non sembra destinata a inaridirsi con l'andar degli anni, anzi. Le sorprese possono attendere l'ascoltatore dietro ogni curva o battuta lapidaria. Nel quadretto "fantasy" di "Two Kings", ad esempio, viaggio dell'immaginazione nelle foreste dell'Ontario (in uno chalet in cui Elvis Presley e Michael Jackson vivrebbero ritirati al riparo dagli sfaceli di quel divismo che li spinse a trasformarsi in maschere grottesche) davvero amabile, confidenziale, delicatissimo, quasi depurato rispetto agli standard molto sopra le righe della combriccola nordamericana; oppure nell'intrigante minimalismo della chiusa, un soliloquio assai ponderato sull'annosa disputa tra patiti del romanzo e fanatici della nonfiction.

Potrà anche suonare paradossale, ma è proprio quando Kom impone il freno alle sue discettazioni, scegliendo l'essenzialità densa di significato e un'andatura piana, svincolata dalla solita frenesia, che la sua creatura si fa preferire, per una volta. Questo almeno quanto affiora dai suoi nuovi dispacci, con buona pace delle rockstar avvilite dalla solitudine e di quelli, tra i loro potenziali ammiratori, che hanno sempre altri programmi per la serata. (Mia valutazione: Buono)

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