John Mellencamp – Sad Clowns & Hillbillies (2017)

di Vincenzo Esposito

Il miglior modo per entrare in questo nuovo album di John Mellencamp - intitolato Sad Clowns & Hillbillies - è quello di passare dalla porta principale, posando lo sguardo sulla copertina, come si faceva una volta. La cover art tiene dentro lo stralcio di un dipinto del 2005 realizzato dallo stesso Mellencamp, pittore tutt’altro che naïf. Un clown tragico, in primo piano, ci interpella da uno spazio astratto, da un abisso spalancato. Non è uno di quei ritratti di Pierrot tristi à la Rouault; quello che vediamo è, invece, un folk-fool, un doppio emblematico del Volto Santo oltraggiato, una versione rurale del professor Unrat interpretato da Emil Jannings nell’indimenticabile film di Josef von Sternberg L’angelo azzurro. Il sad clown di Mellencamp è, a ben vedere, un rozzo contadino (questo è il significato del termine gergale e dispregiativo “Hillbilly”) caduto in disgrazia, in cerca di redenzione, di salvezza. Un uomo semplice che proviene da un luogo che non esiste più, e che non sa più quali passaggi misteriosi percorrere per entrare in scena. Un essere umano dal cuore spezzato divenuto “bersaglio facile” in un’America scontenta e disillusa (Easy Target è, infatti, il titolo di una delle canzoni più emozionanti del disco). È proprio questo, in fondo, il contesto tematico (e politico) nel quale s’inseriscono le tredici tracce di Sad Clowns & Hillbillies; alcune delle quali composte e interpretate da Mellencamp insieme con Carlene Carter (figlia di June Carter, a sua volta star della country music e moglie di Johnny Cash).
Si tratta di un distillato di roots music americana che attinge dal blues, dal country, dal folk e restituisce all’ascoltatore i suoni - prevalentemente acustici - e le contro-narrazioni dell’Indiana (dove Mellencamp è nato e tuttora risiede) e di tutte le terre della cosiddetta Corn Belt, la grande cintura medio occidentale degli stati del mais: l’America profonda. La voce rauca di Mellencamp, impastata di whiskey e tabacco, s’innesta perfettamente nelle soluzioni ritmiche e nelle tessiture strumentali caratterizzate da un uso prevalente di chitarre acustiche e resofoniche, Appalachian banjo, American Feddle (il violino country), mandolino americano, armonica blues. Dal punto di vista musicale, quindi, questo disco prosegue il lungo cammino di riscoperta delle proprie radici intrapreso da Mellencamp trent’anni fa con The Lonesome Jubilee - l’album della svolta -, e si colloca tra i suoi migliori lavori di quest’ultimo decennio.
Prodotto dallo stesso Mellencamp nei suoi studi privati di Belmont (Indiana), Sad Clowns & Hillbillies si avvale della collaborazione di alcune interessanti voci femminili: oltre alla già menzionata Carlene Carter - che duetta con lui in un lento e ipnotico bluegrass (Sugar Hill Mountain) e in un paio di brillanti ballate come Indigo Sunset e Damascus Road -, troviamo anche il duo Lily & Madeleine ai cori e Martina McBride nell’unico pezzo di rock solido ed elettrico presente nel disco, Grandview: la storia di un uomo la cui massima aspirazione è di comprarsi un camper e trasferirsi, appunto, a Grandview, una cittadina come tante sul fiume Ohio; un sogno piccolo borghese, tutto sommato, ma che, nonostante sembri a portata di mano, non si riesce a realizzare, perché gli anni passano, e i debiti e i dolori si accumulano. E se l’Io narrante rock di Grandview finisce i suoi giorni sperando di isolarsi dal mondo rinchiudendosi in una roulotte, quello folk di My Soul’s Got Wings non ha nemmeno una casa sulla terra: «Mi sono fatto una casa, sulla strada verso il cielo. La vita può essere noiosa, ma so ancora cantare». Questa è, in realtà, una di quelle canzoni orfane di musica scritte dal grande folk singer Woody Guthrie e conservate nel suo museo a Tulsa, nell'Oklahoma. È lì che Mellencamp l’ha scovata, dandole, poi, un magnifico corpo musicale country.
Anche in What Kind of Man Am I? c’è una straziante voce narrativa folk, che cala, in prima persona, i versi nel contesto del “nuovo ordine mondiale”, dove i giochi sono sempre truccati; un altro pezzo composto e cantato con Carter, forse il più bello dal punto di vista lirico e musicale: «Ho detto a te di rimanere in piedi, e poi sono stato io a cadere. Quell’uomo migliore che vorrei essere, ma non riesco nemmeno a trovare la via di casa. Che razza di uomo sono? Uno che non ha mai guardato in alto per vedere il cielo. Tutto ciò che ho detto, adesso mi perseguita giorno per giorno. Eccomi qua, da solo, sciancato sul mio bastone. Quel vigliacco che sono diventato, quello che in questo gioco ha perso». A chiudere il disco è Easy Target, una dark ballad acustica e dissidente, con un arrangiamento austero e potente, e versi inanellati ellitticamente. Una delle canzoni più belle dell’ultimo Mellencamp, che affronta il tema del razzismo ed è dedicata al movimento attivista afroamericano dei Black Lives Matter, un’ultima acuta riflessione sullo stato della nazione: «Bersagli facili, lungo le strade di questa città. Siamo io e te, piccola, oltre le sbarre che ci separano. Bersagli facili. Il cuore spezzato del nostro paese!». “Our country’s broken heart” è uno di quei versi che rimangono a lungo in testa dopo averli ascoltati.

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