Arcade Fire – Everything Now (2017)

di Fernando Rennis

Tutto adesso. Potrebbe esser il motto di una pubblicità di Netflix oppure la didascalia per quest’era frenetica del web 2.0, segnata dai social e dall’istante che diventa azione cristallizzata nel tempo, da consumare, però, nel momento stesso della sua messa in atto. Quindi, non solo tutto, ma anche adesso: un po’ come cancellare il passato dopo averci giocato per qualche eterno istante e non riflettere troppo su quello che potrà accadere domani. Stiamo parlando del tempo, e di cose – in brevissimo tempo – ne possono succedere: interi album prima ancora di essere pubblicati sono già in rete sui siti di file sharing, gli inediti suonati in un live fanno il giro del mondo quasi in contemporanea; insomma, bisogna stare attenti. Sì, perché può capitare di svegliarsi una mattina e scoprire che gli Arcade Fire, sempre fedeli alla loro Merge Records, abbiano firmato per Columbia, casa di mega-star come Beyoncé e compagnia bella. Come diceva Bob Dylan, «The Times They Are A -Changin’».
L’ambizione a Win Butler non è mai mancata, il californiano/texano e canadese adottato ha sempre giocato a carte scoperte: essere i migliori, i più grandi, è la promessa che si era fatto quando scorrazzava per il continente americano alla ricerca di persone con cui dare corpo ai propri sogni di fama. La fama è arrivata con Funeral e poi con il Grammy per The Suburbs. La «band senza hit» aveva assestato un bel colpo al mainstream, provenendo dai bassifondi del “così detto indie” e saltando verticalmente i record di vendita di dischi e biglietti e orizzontalmente vari generi musicali, pur conservando il proprio sound caratterizzante. Reflektor, vuoi per la strategia promozionale e per lo status che la band aveva già raggiunto attorno al 2013, ha sublimato questa ascesa: tour trionfale, primo posto su Billboard che era quasi una formalità e, soprattutto, quella sensazione che niente sarà più come prima. Ecco, Everything Now (la cui copertina sembra uno sfondo del Mac) è proprio la dimostrazione di tutto questo.
Nulla sarà come in passato. Niente favola dell’outsider che sfida l’establishment, niente etichetta diy ma anche niente più nervi e pancia, sporcizia post-punk e testi graffianti: un esempio su tutti, Neighborhood #3 (Power Out). Il quinto disco degli Arcade Fire è un album pulito, iper-prodotto ma non pomposo e barocco come Neon Bible o The Suburbs. L’elettronica è più presente rispetto a Reflektor ma quel sound ruvido, dal cuore dub, viene qui tirato via da uno smalto luccicante. Niente è più come prima, persino chiamare in causa la dance (cosa successa sin dagli esordi) non è più la stessa cosa: Everything Now è stato pubblicato mentre la band era impegnata in un secret show al Primavera Sound, consapevole che le dirette Facebook avrebbero segnato il miglior veicolo per sponsorizzare l’uscita. È stato così: chi non era al festival ha avuto tutto il pomeriggio per ascoltare una mescola di Abba (Dancing Queen) e David Bowie (Sound And Vision) con un ritornello in pieno stile Talking Heads (con quel botta e risposta in stile Houses In Motion), influenze già ampiamente trattate in passato dal sestetto, riprese dai telefonini. Verso sera, poi, si poteva finalmente guardare il video hollywoodiano (e, diciamoci la verità, senza andare troppo indietro nel tempo: rispetto a cose come We Exist o Afterlife non c’è paragone) e sentire quanto il lavoro in studio avesse reso il brano un potente singolo da classifica. Con ogni probabilità non siamo di fronte ai migliori Arcade Fire ma quella mossa furbissima di inserire il pubblico registrato al Voodoo Festival dello scorso anno, ovviamente fa la sua figura.
Più che tutto adesso, al decimo ascolto di quel singolo, chi scrive si è chiesto «tutto qui?». Per fortuna no. Everything Now è un disco che gioca su due livelli. Il primo è quello dell’infinito: la tracklist inizia e finisce con la pennellata onirica di Everything Now_(Continued)/Everything Now (Continued), una sorta di promessa di ricostruire la propria esistenza da parte di una specie di Major Tom perso nell’oscurità: «I’m in the black again, Not coming back again, We can just pretend, We’ll make it home again, From everything now». L’idea di infinito viene espressa anche nell’intersezione che si crea proprio a metà dell’album; si tratta di quella Infinite Content/Infinite_Content proposta in due versioni: la prima è declinata in un post-punk ruvido, come se i War On Drugs fossero oggetto di una cover dei Xiu Xiu, con un piccolo cameo dei Broken Social Scene. La seconda versione, invece, fa parte di quel gioco col passato di cui si parlava all’inizio: ascoltandola sembra che gli Arcade Fire stiano presentando allo stesso tempo una variante del brano di Everything Now e una riproposizione di The Suburbs dell’omonimo disco pubblicato nel 2010. L’altro livello del gioco è il concetto di Corporation, che prende corpo nell’account Twitter di una fantomatica Everything Now Corp (una specie di Grande Fratello commerciale che ci controlla tramite wi-fi, ecc, e che riesce a venderci l’anima al diavolo con nonchalance). Questa azienda-fake è anche un ottimo pretesto per scherzare sul passaggio alla major, come si evince da alcuni tweet del tipo: «abbiamo preso il controllo della promozione del disco perché gli Arcade Fire non ne sono capaci».
A parte questi due assi concettuali, Everything Now è un album frammentario che in alcuni punti ricorda Sandinista! dei Clash (qualche mese fa lo stesso Butler ha dichiarato tramite Twitter il suo amore per il triplo disco della «only band that mattered», criticandone però la lunghezza). Good God Damn è il momento in cui questa similitudine è più evidente, un brano che si muove ritmicamente sulle corde di Lullaby dei Cure ma conservando l’atmosfera di un pezzo di Joe Strummer & Co. passati al rallentatore. Il quinto disco degli Arcade Fire è un concentrato di vari mood, vengono toccati molti generi e chiamate in causa più influenze, in una sorta di viaggio geografico e diacronico: Peter Pan, incentrata sulla favola di James Matthew Barrie, e Chemistry, che narra di un triangolo amoroso, uniscono reggae e sonorità in stile Island Records rispettivamente con la schizofrenia degli Animal Collective e le saturazioni di Jean Jett & The Blackhearts in I Love Rock N Roll. La sempiterna influenza di uno dei padri putativi degli Arcade Fire, David Byrne, emerge in una Signs Of Live che, tra battimani e synth, solca i terreni vocali e danzerecci dei Bee Gees. Creature Confort ed Electric Blue sono tra i momenti migliori del disco: la prima riversa i digitalismi dei Soft Cell nella visione dance post-punk di James Murphy, mentre la seconda suona come se Caribou decidesse di fare una cover di Marquee Moon dei Television. I loro opposti invece, brani evitabili e poco ispirati, sono il collage in salsa Stranger Thing – il Carpenter sound di Put Your Money On Me e la ballata che più di qualsiasi altra canzone del disco sembra dare il benvenuto agli Arcade Fire nella dimensione mainstream in stile U2, We Don’t Deserve Love.
Insomma, a conti fatti, Everything Now non regge il confronto con quanto fatto fin qui da Win Butler e soci. Manca un’idea forte che sorregga i testi e la scelta di ammorbidire il proprio sound (“merito” in parte delle produzioni di Steve Mackey (Pulp), Thomas Bangalter dei Daft Punk e Geoff Barrow dei Portishead che hanno affiancato lo storico collaboratore Markus Dravs) non paga fino in fondo. Potremmo scegliere un titolo più indicato, per il quinto disco degli Arcade Fire: Nothing Is Like It Was Before, perché niente è più come prima, e questa band l’abbiamo conosciuta e apprezzata per altre qualità che qui si fa fatica a distinguere. Probabilmente non mancheranno i tappeti rossi della critica (anche se da più parti arrivano segnali di perplessità): Pitchfork quando punta qualcuno è tremendo, sia in positivo, come nel caso del sestetto canadese, che in negativo (ne sanno qualcosa i poveri Alt-j). Speriamo non sia così. Gli Arcade Fire sono furbi e sanno di poter contare sull’appoggio della propria fanbase (con cui ancora si divertono a giocare nell’hype promozionale) e della stampa, «they’ll clap anyway», come canta Butler in My Body Is A Cage. I dubbi sorgono perché questa volta il sestetto è dovuto ricorrere all’abile mossa della fake news per controbilanciare la bordata di Stereogum e si è inventato l’ennesimo escamotage di stampo post-truth con la questione del code dress nei live a ridosso dell’uscita del disco.
Ascolteremo questo album con piacere, ma sarà un sogno di una notte di mezz’estate e nulla più, non ci sbracceremo per il decennale di Everything Now come abbiamo fatto per Funeral. Il tutto adesso non è affascinante come il passato, al di là di ogni retromaniaca nostalgia; non ci resta che sperare in un futuro più bello o, almeno, bello com’era un tempo. La verità è che questa volta un po’ di delusione c’è, più che altro è quel senso di indifferenza che sale durante l’ascolto a lasciare il segno. I tempi cambiano, le situazioni si evolvono e anche la bellezza muta. Gli Arcade Fire di Everything Now sono “diversamente belli”: il loro quinto album non è carta straccia, ma non regge il confronto coi vari Funeral, Neon Bible, The Suburbs e Reflektor. Questo passa in convento: un disco interessante che però, per esempio, non ha nulla a che vedere con The Underside Of Power o Hug Of Thunder. La fortuna di Butler e soci è che sono bravi, e anche quando sono sottotono riescono a stare a galla. Non è da tutti.

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