Grizzly Bear – Painted Ruins (2017)

di Piero Merola

Sono rimasti solo loro e poco altro, com’è giusto che sia. Per ribadirlo, sono bastati i primi quattro estratti, nell’ordine “Three Rings”, quintessenza del loro sound, il pop vagamente sintetico di “Mourning Sound” (che dà una lezione agli Arcade Fire e a tante band di quei tempi che oggi appaiono disorientate e sfinite), l’epica “Four Cypresses”, uno dei quattro brani cantati interamente da Daniel Rossen, e il folk 3.0 di “Neighbors”, canzone alla loro maniera tra meravigliose armonizzazioni e cambi perfetti e imprevedibili. A freddo propio quest’ultima risulta uno dei momenti più intensi dei quasi cinquanta minuti di album, insieme al primo splendido estratto.

Tra i migliori rappresentanti di quell’irripetibile ondata di artisti dello scorso decennio che avevano ridato fiato e lustro al rock indipendente (in senso lato) di Brooklyn, i Grizzly Bear arrivano alla prova del quinto album, non senza fatica. Sono passati quasi cinque anni dal loro ultimo capolavoro “Shields”, che sembrava aver chiuso definitivamente il cerchio dopo il disco che li aveva resi popolari anche in circuiti apparentemente estranei al loro mondo, “Veckatimest”, uscito sempre per Warp nel 2009 e che convinse addirittura Jay-Z e Beyoncé a uscire dal loro “castello” newyorchese per andare a vedere un live sul waterfront di Williamsburg, a Brooklyn, dove si radunarono più di diecimila persone. Un anno prima il suo fan più popolare, Jonny Greenwood, li aveva definiti la migliore band del mondo convincendo gli altri Radiohead a portare i Grizzly Bear come band di supporto in una leg del tour. Nel dicembre del 2012 in un live benefit a Manhattan per le aree colpite dall’uragano Sandy, cui abbiamo avuto la fortuna di assistere, sono riusciti a raccogliere 300mila dollari di incasso.

I sold out in Nord America, Inghilterra, Australia e buona parte dell’Europa erano all’ordine del giorno. Da Paul Simon a Tyler, The Creator passando per Trent Reznor e svariati rapper e producer che campionano parti dei loro brani, senza essere sfacciatamente pop, il progetto, nato come un’idea solista di Ed Droste, ha conquistato davvero tutti. Finita la golden age dell’indie e della musica d’autore più sperimentale di quell’epoca, anche i Grizzly Bear, sfiniti dai lunghi tour degli ultimi due album, hanno tutti abbandonato Brooklyn per trasferirsi, come molti altri artisti, a Los Angeles, ad eccezione di Daniel Rossen che è rimasto sull’East Coast. Chris Taylor si è dedicato più che mai alla produzione, non solo da fondatore di Terrible Records, che ha dato alle stampe tra i tanti Solange, Blood Orange, Empress Of, Kindness, Twin Shadow, Kirin J Callinan. Ed Droste ha divorziato, ha girato alcuni dei posti più belli del mondo, diventando un attivista molto rispettato nel mondo LGBT. Daniel Rossen e Chris Bear si sono presi una fase di sabbatico tra scrittura di colonne sonore e isolamento. La lunga attesa dei fan, a quanto pare, non è diventata estenuante, per merito di Taylor, il più intenzionato rispetto ai tre compagni di avventure, a dare, dopo cinque anni, un seguito alla loro esaltante avventura tra folk e clamber pop. Una formula diventata inconfondibile e difficilmente riconducibile a un “maestro” o a un nome del passato, almeno che non si voglia tirare tutta la musica pop da Brian Wilson ai Radiohead.

Chi si aspettava stravolgimenti o novità considerevoli, resterà deluso da questo primo dei cinque album non distribuito da Warp (cosa comunque non da poco per una band così distante dall’elettronica britannica). Un po’ come in “Shields”, i quattro Grizzly Bear non si snaturano alla ricerca di strane chimere. Preservano le caratteristiche essenziali del loro sound, senza troppo adagiarsi, né osare. L’introduttiva “Wasted Acres” suona a tutti gli effetti come un prologo, la conclusiva “Sky Took Hold”, il brano più lungo della raccolta, ha la tipica struttura della chiusura, romantica, esplosiva, orchestrale. Nel mezzo, tra brani cantati da Droste e brani cantati da Rossen, non ci sono mai cali di tensione né sorprese. “Losing All Sense” recupera quella scrittura orecchiabile e baroque dei momenti pop di “Veckatimest”, “Aquarian” ha il fascino senza tempo tra chamber pop, sfoghi orchestrali e andature jazzate di “Shields”, “Cut-Out” è una via di mezzo tra due brani e due anime del quartetto, quella più solare, accessibile, comunque mai banale o superficiale nemmeno nei momenti più cantabili, quella più intellettuale e complicata, ricercata, ma mai davvero autocompiaciuta.

Il rischio dell’esercizio di stile è dietro l’angolo, in momenti rilassati e adulti come “Glass Hillside”, ma è sempre difficile resistere al fascino delle loro composizioni e a quegli arrangiamenti ubriacanti che li hanno resi inimitabili. Nell’unico brano, “Systole”, dove a essere protagonista è la voce dell’arrangiatore per definizione, Chris Taylor, i Grizzly Bear recuperano quel fascino fuori dal tempo di “Yellow House.

Probabilmente tra un paio di decenni chi studierà la nostra epoca si chiederà come mai, in questo ambito, idolatrassimo così tante band inutili, non dando la giusta importanza a una band come i Grizzly Bear.

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