Oddfellow’s Casino – Oh, Sealand (2017)

di Gianfranco Marmoro

Quando negli anni 70 l’intellighenzia rock si appropriò del linguaggio della musica folk, era evidente che a ridosso delle band più audaci e intelligentemente ruffiane come Jethro Tull, Steeleye Span e Lindisfarne, vi fosse uno scenario più ricco e variegato e spesso misconosciuto.
In quel giardino dell’Eden del folk inglese, dove ai fucili si sostituivano le chitarre e alle bombe il calore del sole, non c’era solo l’immaginario bucolico che Ralph McTell aveva portato al successo con “Street Of London”, in quell’universo lirico, poetico, letterario e culturale vi era una fonte inesauribile di idee per tutte le generazioni a venire.
E’ infatti difficile pensare al punk senza evocare Billy Bragg e i Pogues, o all’avvento della new age e della contaminazione etnica senza citare Enya, Clannad o Loreena McKennitt, e che dire dei moderni eroi indie-folk, che nell’era del lo-fi hanno diluito fino alla noia l’immaginario della musica acustica e cantautorale.

Il folk e le radici sono una linfa vitale che non conosce limiti, al punto che anche nei percorsi di artisti come Kate Bush, Penguin Café o David Sylvian è percepibile la loro presenza.
Molte contaminazioni sono frutto però di una semplice esigenza estetica. Più interessante appare il percorso di ricerca e rielaborazione di musicisti spesso ritenuti marginali: autentici traghettatori della tradizione verso nuove fisionomie sonore.
Rob St John con il suo diario in musica sul fiume Lea (“Surface Tension”), l’ancestrale viaggio nella poesia inglese della Memory Band con “A Fair Field”, il percorso antropologico di Lisa Knapp e Sam Lee e le evoluzioni in chiave elettronica di Phelan e Sheppard sono solo alcuni dei tasselli di una scena folk sempre più interessante e autarchica.
In questo interessante scenario si inseriscono David Bramwell e i suoi Oddfellow’s Casino, una band che da quindici anni si ostina nella ricerca di una nuova identità della musica popolare inglese, che tenga ben presenti anche quei valori politici e sociali che l’Inghilterra sta pericolosamente abbandonando, aprendo le porte al terrorismo ideologico e al razzismo. “Oh, Sealand” è il sesto album (settimo, considerando un lost project) della formazione britannica, un progetto che conferma quelle nuance pop e progressive-rock che si sono ormai impadronite delle loro matrici folk.

“The Ghosts Of Watling Street” non è solo il brano più immediato e accattivante del disco, ma ne è anche il perno creativo, dietro le sue pulsanti e deliziose note di pop-psichedelico alla Teardrop Explodes, si cela difatti un omaggio allo scrittore John Higgs (che compare anche come voce narrante) e al suo libro “Watling Street”: un interessante viaggio nella storia e nell'identità culturale dell'Inghilterra pre-Brexit.
L’altro omaggio è il delicato inno folk composto per il principato di Sealand, una struttura artificiale creata dal governo inglese durante la seconda guerra mondiale, autoproclamatasi indipendente e mai riconosciuta da nessuna nazione.
Musicalmente il nuovo disco degli Oddfellow’s Casino è avventuroso ed eccentrico, la lunga “Down In The Water” azzarda commistioni tra glam, electro-pop e soul, con una sensualità glaciale che non si riassaporava più dai tempi di Gary Numan, mentre “Land Of The Cuckoo” sceglie curiose trame sonore di soul psichedelico, anticipando i toni robusti della fuzz guitar che incendiano le trame più articolate di “Children Of The Rocks”.
Anche gli apparenti contrasti stilistici hanno un loro perché: il malinconico e delicato canto d’amore di “Josephine” si alterna con la splendida ballata folk-rock “Penda’s Den” (una storia di omosessualità e accettazione), mettendo a confronto due modi d’amare che assurgono a simbolo della confusione e della conflittualità culturale che si agita nella moderna Inghilterra.

Il nuovo album degli Oddfellow’s Casino è un percorso a ostacoli nella musica inglese passata e presente, messo insieme con echi lirici che possono appartenere indistintamente ai Pentangle o ai Caravan (“Swallow The Day”, “Sons And Daughters Of A Quiet Land”) o proiettarsi verso l’arte dei field recording (“Danu”) e del prog più colto e poetico (“Blood Moon”) restando sempre dietro le quinte a mo’ di spettatore, dando vita a una delle più affascinanti e interessanti narrazioni della musica inglese degli ultimi anni.

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