Brigid Mae Power - The Two Worlds (2018)

di Gianfranco Marmoro

Le diverse volte in cui siamo costretti a cedere alla cruda realtà, accettando la fragilità delle emozioni, trasformare un attimo di felicità in malinconia, o una speranza in illusione, è questione di un attimo. In questo tempo "angusto", la voce di Brigid Mae Power trova continua linfa creativa, proseguendo una ricerca sonora che incrocia le quotidiane incongruenze.

Avevo già assaporato le oscure alchimie folk della cantante e autrice irlandese, quell’intensa trasfigurazione della semplicità in qualcosa di aulico, quella liturgia pagana che cantava l’innocenza e l’inquietudine. Non speravo di ritrovare ancora immacolata e vivida l’intensità poetica del folgorante esordio, non solo è immutata ma e perfino più familiare, quasi confidenziale.
Chi ha avuto la fortuna di incrociare Brigid Mae Power nelle sue tournée ne conosce appieno la potenza espressiva, un’energia che questo nuovo album restituisce senza filtri o trucchi. Il compagno musicista e produttore Peter Broderick ha scelto la strada della registrazione analogica, tutto è stato catturato in poche sessioni live in studio, alle quali è stata aggiunta una minima dose di sovra-incisioni, cercando di non togliere respiro alla potenza e al candore delle parole.

Messa a nudo, la voce di Brigid Mae Power dialoga con le proprie paure su esigue note di chitarra acustica decorate con arie celtiche (“Peace Backing Us Up”), affrontando senza timori le ombre del passato - fatto di violenze subite all’interno di un difficile rapporto sentimentale - nella splendida “Don't Shut Me Up (Politely)”: un brano il cui valore poetico assume particolare rilievo alla luce del caso Weinstein. Per Brigid Mae Power “The Two Worlds” ha la forza terapeutica di un outing emotivo, a volte crudo e viscerale, altresì affrancato da un lirismo inarrestabile, musicalmente più attiguo alla sperimentazione che alle dolcezze del folk (“Down On The Ground”). Anche se spetta al jazz-folk pianistico di “So You've Seen My Limit” l’incombenza più dolorosa, ovvero quella di esternare tutta la fragilità dell’autrice adagiando l’asperità del testo su un tessuto musicale soave.

Karen Dalton e Tim Buckley restano i due riferimenti stilistici più evidenti, ma non va sottaciuta una certa attenzione all’espressività vocale della black music (l’autrice ha affermato di aver ascoltato molto Stevie Wonder di recente) che sembra far capolino già nell’introduttiva “I’m Grateful”, il cui incedere solenne sorretto dall’organo e dalla batteria ha il fascino del blues e del soul.
E’ comunque il folk la materia prima di queste dieci nuove perle di cantautorato, il minimalismo lirico, la perfetta connessione tra linguaggio e suono sono tipica di una tradizione che alcuni hanno appena sfiorato nella loro carriera di folksinger.

Qui alberga la stessa veemenza di Anne Briggs e dei Planxty, una magia che incrocia ritmo e armonia invertendone i ruoli. La musica di Brigid Mae Power è come un mantra, un canto che è sia simile a una preghiera pagana (“On My Own With You”) che a una vecchia poesia tirata fuori da un cassetto polveroso (“Is My Presence In The Room Enough For You?”). A volte la voce lascia degli spazi vuoti, solitari, che la musica riempie con note di piano che sembrano rubate a Chopin (“ How's Your New Home?”), ma la musica di “The Two Worlds” non è mai confortevole.
Ci sono momenti in cui l’intensità lirica ti persuade a lasciar scorrere tutto in sottofondo (la title track), ma basta un attimo e avverti il desiderio di chiudere la porta, per poter assaporare in silenzio quel canto ancestrale che pochi sanno catturare in sparute e poetiche note (“Let Me Go Now”).

Il nuovo album di Brigid Mae Power non è solo un insieme di canzoni, ma un vero e proprio bagaglio di ricordi ed emozioni con il quale affrontare qualsiasi viaggio, non solo nel nostro mondo ma anche in quello altrui.

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