Anna Von Hausswolff – Dead Magic (2018)

di Fabio Gallato

Nel suo saper trattare con (s)confortante naturalezza temi plumbei ed ingombranti come la morte (in tutte le sue sfaccettature) Anna Von Hausswolff sembra provenire da un’altra epoca, da un altro universo. Sicuramente uno dei talenti più cristallini della scena europea, l’artista svedese ha fin qui sempre convinto e sorpreso nella sua esplorazione dell’esperienza del sacro e dell’esoterico per mezzo di un contesto sonoro difficilmente inquadrabile, ma comunque riconducibile ad un caleidoscopio di colori scuri e sonorità in bilico tra doom, drone e neoclassica.

Pur non distaccandosi da questa visione, il nuovo album “Dead Magic” – il quarto in carriera – rafforza la potenza espressiva della trentaduenne di Goteborg, confermando (e migliorando) quanto fatto in passato, e allo stesso tempo portando in dote diversi e piacevoli elementi di novità.

Sono ancora una volta le parole (citate nelle note di presentazione dell’album) e il pensiero del poeta svedese Walter Ljungquist ad ispirare l’opera di Anna Von Hausswolff: ”Take the fate of a human being, a thin pathetic line that contours and encircles an infinite and unknown silence. It is in this very silence, in an only imagined and unknown centre, that legends are born. Alas! That is why there are no legends in our time. Our time is a time deprived of silence and secrets; in their absence no legends can grow.”

In questo senso, la ricerca di strumenti che interpretino l’ultraterreno e trasportino in un non-luogo in cui possano rinascere leggende, tradizione e magia viene spinta all’estremo, portando in primissimo piano, ancora più che in passato, l’organo – nella fattispecie un enorme modello a venti canne presente nella maestosa Marmokirken di Copenaghen, nella quale la Von Hausswolff ha registrato tutto l’album con il produttore Randal Dunn (SunnO))), Marissa Nadler…).

Certamente solenne e ambizioso, “Dead Magic” è però allo stesso tempo leggero ed evocativo, risultato di un sottile ma significativo scostamento da quell’angosciosa sovrastruttura metal che caratterizzava i lavori precedenti, a vantaggio di una visione più eterea, ariosa, ora davvero perfetta per la definizione di funeral pop che tanto le si addice. Molti elementi di questo nuovo corso si possono trovare nei dodici minuti del maestoso opener The Truth, The Glow, The Fall, nel quale un crescendo di archi si mischia ad una danza gotica fatta di synth ed organo, e su cui la voce di Anna Von Hausswolff troneggia ai massimi termini, ricordando i fasti della solita Kate Bush (a cui spesso è stata accostata), ma anche di Diamanda Galas, in una sorta di appassionata elegia per l’altrove che sa gestire bene momenti diversi, tra cui perfino la parentesi tra il kraut e l’ambient posta in mezzo al brano.

La successiva The Mysterious Vanishing Of Electra è forse il manifesto dell’album: è una marcia ossessiva e ancestrale, costruita su di un continuo e coinvolgente contrasto tra luci ed ombre, e in cui il climax claustrofobico, retto qui anche delle percussioni, esalta ancora la prova vocale della svedese che, proprio come il video diretto dalla sorella Maria, rende a pieno i diversi stati d’animo e le diverse tematiche toccate non solo dal brano, ma dall’album intero, passando in perfetta simbiosi tra suoni e immagini dalla morte e dalla sparizione, alla rinascita e alla crescita interiore. A far da spartiacque, Ugly And Vengeful si dipana in 17 minuti lunghi ma sempre avvincenti, che toccano vari strati della produzione di Anna Von Hausswolff, trattando prima elementi di dark-folk, poi di drone music e infine si schianta, tra sperimentalismi vari, in un vortice di pura e rabbiosa psichedelia.

Gli ultimi due brani segnano i momenti più riflessivi del disco: Marble Eye è una suite strumentale per solo organo, orrorifica (a tratti sono forti gli echi dei Goblin) ma confortante, che sembra ricomporre pian piano tutte le cose andate inevitabilmente fin qui in frantumi; la conclusiva Källans Återuppståndelse (La resurrezione di Källan) termina il percorso disegnando scenari da favola nordica e traiettorie eteree, lungo le quali pattern avvolgenti e l’onnipresente organo stendono un enorme velo di malinconia, tristezza e accettazione, un manto funereo di neve siderale che regala una placida fine ad un lavoro che è già pietra miliare della discografia dell’artista svedese.

A dispetto delle sole cinque tracce che lo compongono, “Dead Magic” è un viaggio dettagliato all’interno del subconscio umano, un corollario di stati emotivi e sensoriali che raramente possiamo trovare così profondi e tangibili in un’opera musicale, e che solo un’artista dal talento così puro e dalla sensibilità sconfinata può rendere in maniera così efficace.

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