Ben Harper & Charlie Musselwhite – No Mercy In This Land (2018)

di Nicola Corsaro

Se il rock è morto, il blues non se la passa bene. Cacciato fuori a calci dalle influenze dei gruppi mainstream, vive di brevi momenti e del business dei blues club, piccole venue dedicate a jam session ed esibizioni esclusivamente blues, che se vi capitasse di frequentare assiduamente conoscereste Dust My Broom o Hoochie Coochie Man meglio dei nomi dei vostri familiari.

Periodicamente, però, si affaccia qualcuno sulla scena: facce nuove, facce vecchie, facce vecchie ma nuove in quanto sconosciute non solo alla massa, ma persino alla nicchia (R. L. Burnside, venuto alla ribalta quando, fresco settantenne, registrò “A Ass Pocket Of Whiskey” con i Jon Spencer Blues Explosion). Negli ultimi anni il blues banale, seppur suonato in maniera eccezionale, di Joe Bonamassa l’ha fatta commercialmente da padrone, ma nel 2013 accadde uno di quei brevi momenti accennati sopra, una improbabile coppia formata da Charlie Musselwhite, leggenda del blues bianco di fine anni ’60, e Ben Harper, uno che il blues l’ha sempre avuto come linfa vitale della sua musica migliore. I due sfornano un album blues eccellente, e non eccellente per il 2013, ma eccellente punto.

Tornano cinque anni dopo, con un Grammy in più in tasca e lo stesso piglio di chi il blues lo respira da una vita e, quando è costretto a far altro, ce lo mette di soppiatto, senza farsi sgamare. Qui non ce n’è bisogno: Harper sfoggia una voce da bluesman più che navigato (sorprendente in The Bottle Wins Again, un blues talmente tradizionale che sembra uscito da un disco di Muddy Waters), mentre il buon vecchio Charlie sciorina senza sforzo una tecnica straordinaria all’armonica, tecnica e talento che gli hanno permesso di diventare (e rimanere) una leggenda. Insieme, ripetono e forse migliorano l’exploit di un lustro fa.

I due capolavori rhythm and blues Love Is Not Enough e Nothing At All (ballatone che sono senza dubbio alcuno tra i migliori episodi della carriera dell’eclettico cantautore californiano) costituiscono eccezioni al ritmo serrato imposto dal duo che, con una setlist da juke joint, vaga dal country blues di Trust You To Dig My Grave, introdotta da un delizioso arpeggio acustico, al feroce blues elettrico di When I Go senza pensare a moderno, antico, presente, futuro: questo eccelso duo ha fatto quello che serve per fare un grande disco blues, cioè scrivere pezzi eccellenti, dargli testi potenti ed eseguire il tutto con anima, cuore, corpo, culo, cazzo, denti, unghia.

Se il confronto immediato viene in mente rispetto a un progetto simile, ovvero quel “Blue And Lonesome” dei Rolling Stones di qualche tempo fa, è facile notare, oltre al fatto che questi sono pezzi originali e quelli cover, che se le due band pareggiano un duello eccellente, Harper batte Jagger 6-0, 6-0, risultando non solo più credibile ma anche più duttile. E quando batti gli Stones a questo gioco, c’è solo da dire “giù il cappello”.


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