Drive-By Truckers – American Band (2016)

Nella foto di copertina - la prima a cambiare gli usuali temi "gotici" disegnati dall'illustratore Wes Freed - i colori sono sbiaditi, la bandiera sventola a mezz'asta, il contrasto con i toni grigi e crepuscolari dell'immagine è quasi impercettibile. È l'America dopo gli otto anni della presidenza Obama, quella che si è risvegliata dalla spinta dell'ottimismo e di una progressiva ripresa economica e ha dovuto affrontare l'altra faccia della medaglia: l'improvviso riemergere della questione razziale mai risolta, l'ineguaglianza crescente, la violenza delle armi e la brutalità della polizia, il terrorismo e la fobia del diverso da sé. Un blocco di tensioni sociali che i Drive-By Truckers affrontano con la forza di una autentica American Band: lontano dalla retorica del rock'n'roll più plateale e certo poco affine ad altre simili dichiarazioni del passato, quel titolo simboleggia semmai un gruppo che è un corpo unico con le sue canzoni, che fa il suo sporco lavoro sulla strada (da vent'anni esatti, era il 1996), che non teme di metterci la faccia.

Mike Cooley e Patterson Hood, da sempre timonieri della band, dichiarano senza mezzi termini che American Band è l'album più "politico" della loro carriera: niente di più vero, nell'accezione più scomoda e diretta possibile. Prendono posizione, rischiano (qualche fan di vecchia data starà già strocendo il naso di fronte alla "condanna confederata" di Darkened Flags On The Cusp Of Dawn), si espongono in prima persona sul mondo che li circonda. Undici canzoni scritte e registrate in fretta, un disco più conciso del solito per la loro mentalità, registrato al Sound Emporium di Nashville con il fido David Barbe: perché quello che Hood e Cooley avevano da dire era già nelle loro teste, conclusioni simili arrivate da due songwriting in parallelo, un'intesa ormai maturata in due decenni di scorribande. American Band è uno dei lavori più coerenti anche a livello musicale: livido ma più riflessivo nel tono, lì dove il lirismo di organo e pianoforte nelle mani di Jay Gonzalez assume un ruolo centrale, mai così essenziale in fase di arrangiamento, un heartland rock, si sarebbe detto un tempo, che sa di margini e chiaroscuri e nel quale la componente testuale è sostanziale nel rendere i brani uno spaccato della società americana. Continua a leggere...

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